... cucina pavese                                         Cava Manara
 
 

Dimmi come mangi e ti dirò chi sei, fu detto da quel raffinato ghiottone che fu Brillat-Savarin. Certo è che a Pavia si mangia bene e si beve meglio, senza cercare oltre le possibilità della produzione locale; il che depone a tutto favore del carattere dei pavesi.
Specialità gastronomiche vere e proprie o tali almeno da conferire un particolare diploma alla cucina pavese, non ne esistono se si prescinde dalla produzione dei latticini e dei vini dell'Oltrepò, e ciò è spiegabile col fatto che la provincia di Pavia, costretta come è dalla sua posizione geografica fra notissime cucine a carattere proprio, ha trovato più comodo di attingere a queste importando da Milano il classico risotto, la «busca», l'osso buco e le costolette impanate e fritte nel burro, e dal prossimo Piemonte, il foiolo e la «fondüa». Più difficile è stato l'acclimatarsi nella terra nostra della cucina emiliana, per quanto i «tajarìn» e i «ravio» dell'Oltrepò si rivelino figli non degeneri della cucina bolognese. Questi ultimi specialmente hanno attecchito assai bene anche a Pavia, particolarmente in Borgo Ticino, ove sono diventati il piatto tradizionale per il giorno della festa, l'8 settembre. Però nella loro trasmigrazione si sono notevolmente modificati, almeno nelle proporzioni. Non sono più, come a Bologna, piccoletti e graziosamente arrotolati su se stessi a somiglianza, come la tradizione vorrebbe, del roseo umbilico di Venere, ma bensì confezionati a guisa di ben pasciuti cuscinetti, adatti ad appetiti senza riserve ed a stomachi ben costruiti. Ma anche se la cucina pavese non ha specialità sue particolari non è detto, con questo, che manchi di una sua tradizione.
Ogni ricorrenza ed ogni stagione hanno i loro piatti caratteristici:

  • la polenta pasticciata   nell'inverno,
  • i tortellini opimi e mastodontici   per l'autunno,
  • i tortellini   per S. Giuseppe,
  • i ceci con la testina di maiale   per i Morti,
  • le rane   in guazzetto ed in frittata nei mesi senza la erre,
  • gli uccelletti   con la polenta e la selvaggina in genere, cucinata a dovere in tempo di caccia,
  • il risotto ed i capponi    per Natale
  • latte, panna e formaggi   dei quali abbiamo ricchissima produzione in ogni tempo dell'anno,
  • la torta Paradiso   che sa efficacemente battersi contro l'ambrosiano panettone e il veronese pandoro
  • il pane di San Siro   per la festa del Patrono
e via discorrendo, che troppo lungo sarebbe un elenco di questo genere.

Anche le mense modeste sono caratterizzate da una certa aria di buon gusto e di appetitosa scelta che fa diventare saporite e gradite le vivande non idonee a competere con la cucina di lusso. Un buon minestrone nel quale il cucchiaio immerso resti ritto, è l'ideale inizio; una fetta di arrosto così detto «negà» (annegato, con molto sugo), nei giorni consentiti; e negli altri la «tenchèta» (tinca, tinca vulgaris, giovane) coi piselli oppure «al pèss persigh» (pesce persico, amygdalis persica), ridotto a succulenti cotolette non fanno desiderare di meglio; una fetta di Gorgonzola od uno spicchio di grana mettono a posto lo stomaco, e un po' di «bianc' custà» (falsa costa di manzo o di vitello) e un «bucön d cua» (nodulo di coda bovina), valgono quanto la «sleppa de manz» che il Tecoppa ammirava attraverso i vetri dei ristoranti di lusso della sua Paneropoli.
Così, ora, come nei tempi. Non parliamo poi dell'epoca delle Signorie. Allora a Pavia c'era spesso corte bandita tanto in Castello quanto nelle ospitali case dei nobili. Ma prima di passare alla storia, consideriamo anche la tradizione, rifacendoci a quanto, in fatto di gastronomia pavese, ricorda Opicino De Canistris, nelle sue «Lodi di Pavia» scritte ne1330.
È tradizione che S. Siro (come già ricordammo parlando della Chiesa pavese) fosse quel fanciullo, (Siro perché di Siria) del quale S. Andrea Apostolo disse al nostro Signore Gesù Cristo: «è qui un fanciullo che ha cinque pani d'orzo e due pesci», magra dispensa che, appunto perché tale, servì miracolosamente a sfamare ben cinquemila persone. Con un simile protettore, Pavia dovrebbe vivere tranquilla; e vedremo più avanti che anche in precarie occasioni, seppe sempre cavarsela, stringendo volta a volta la cinghia o allargandola. Premettiamo che Opicino De Canistris, parlando delle discordie che tormentavano Pavia, ne fa colpa a «turbolenti cittadini che hanno male di troppo bene, satolli come sono di pane e vino e nuotanti nella bazza fino alla gola». Vediamo ora come il nostro storico ha ricordate le attività gastronomiche della provincia.
«Nella campagna che tocca i confini del milanese e del lodigiano si fanno dei discreti vini, buoni in particolare modo d'estate, anche per ammalati. In Lomellina si raccoglie gran quantità di ottimi legumi e vi si fanno vini eccellenti, per colorito e salubrità, massime a beverli d'estate. Nel Siccomario si trovano fondi ubertosi e frutti in abbondanza. Vi si fanno vini passabilmente buoni, quantunque inferiori agli altri. Vi sono ortaglie e verzieri; vi spesseggiano le caccie ricche di buona selvaggina. Nell'Oltrepò i monti hanno vigne producenti prelibato vino assai ricercato».

Ed inoltre: «Pavia ha abbondanza di pesce fresco dal Po, dal Ticino, dal Gravellone e da altre acque minori. Pecore, capre, abbondanza di suini e roba mangiativa di ogni fatta, uova e formaggio e miele. D'altre cose poi, e vettovaglie n'ha tanta abbondanza da darne alle altre città. Per pochi denari a Pavia si comperava molto. Anzi, capitò qualche volta d'aver avuto tale abbondanza di pane e vino da vendersi per manco di tre tornesi d'argento (il tornese d'argento valeva più di cinque soldi, ed il soldo di allora valeva circa 57 centesimi dell'anteguerra) tanto frumento quanto ne può portare un uomo robusto, e per meno ai mezzo tornese tanto vino da caricarne due uomini d'egual fatta; a segno tale che taluno dovette fino versare il vino per le strade per non avere nè dove metterlo, nè a cui darlo, nemmeno ai poveri che n'avevano anche di troppo. In mercato, per quanto riguarda le cibarie, si trova ogni ben di Dio e persino l'acqua del Ticino è ritenuta eccellentissima per cuocere certi legumi di difficile cottura, pregio che ha l'acqua eziandio di certi pozzi della città».

Di vere e proprie specialità mangerecce pavesi, non si ha, neppure per il passato, gran che di notizie, Un documento del monastero di S. Maiolo, che risale al 1200, ci rivela però qualcosa in proposito; si tratta di un fornaio che giustifica la sua assenza da una riunione per aver dovuto confezionare del «pane pepato» per una imminente festività.
Ecco dunque una «specialità». E la confezione di questo pane drogato ed aggentilito nel sapore con frutta secca, zibibbo, pignoli e nocciole, il cui uso in Pavia s'è perduto, ha trovato miglior fortuna in altre città ove tuttora si può trovare, specie d'inverno, e col medesimo nome per quanto di sostanza leggermente variata. Ad esempio, in Liguria, nel Bolognese, nella Romagna e anche nel Friuli.
C'è poi un manicaretto caratteristico, di più modesto valore, ma che, ricordato anch'esso da Opicino, ritroviamo ancora e non soltanto alle mense popolari.
Dice questo cronista, parlando della tavola pavese: «Usano dare prima il bollito che la minestra, cui riservano per lo più all'ultimo. La qual costumanza adottarono in grazia dei forestieri, i quali, non sapendo altro del resto del pranzo, si ingolfavano di minestra, o del primo piatto, poi piantavano lì sul più buono, i più delicati manicaretti. E questo ripiego proviene nei pavesi da una grande cordialità. È anche da rimarcare che gli artigiani popolani, come altresì in altre congiunture, quando mettono tavola ai forestieri, la scialano più dei nobili nella squisitezza e varietà dei cibi. Circa le salse che apprestano alla mensa, a tacere di tutte l'altre, dirò che col lesso servono sempre e ovunque, da quelle parti una salsa calda che chiamano «peverata»; la pongono in un vasetto, e quando raffredda, ve n'aggiungono della più calda»».

Ne volete la ricetta? Siamo lieti di indicarvela, quale fu riesumata ed aggiornata in occasione della ««Settimana Gastronomica Pavese» svoltasi dall'11 al 19 maggio del 1940.

Occorre disporre: 25 grammi di peperoncini rossi o verdi mordenti e ben mondi; 25 grammi di fiore di farina bianca leggermente tostata; 3 tuorli di uova assodate; Un pezzetto di sedano bianco; 2 spicchi di aglio (o cipolla); un pizzico di noce moscata; 15 grammi di capperi; 3 acciughe (o pasta di acciughe); un pezzetto di buccia di limone tagliata superficialmente; sale quanto basta.
Non v'è che tritare il tutto e passarlo poi al mortaio aggiungendo lentamente olio di oliva fino e aceto aromatico. Infine, sbattere ben bene per rendere il composto uniforme come una crema.

Inutile osservarvi che nel '300 nè pepe nè noce moscata venivano ancora importate dalle Indie; queste spezie venero inserite nell'antica ricetta perché i gastronomi pavesi del secolo XX onorassero la vecchia sapienza ed i meriti dei lontani buongustai con «pratiche» esperienze.
Del resto, le prove fatte al tempo della «Settimana» con l'applicazione del «recipe» rinnovato, hanno incontrato il più largo favore anche per giudizio di «esperti» forestieri di particolare competenza.

Saltiamo ora, a piè pari, un paio di secoli per arrivare al tempo dei Visconti ed a quello degli Sforza e ci accorgeremo che un altro cronista pavese, Stefano Breventano, che ci descrive il Parco del Castello, lo fa apparire, pingue riserve per ogni caccia, e quindi riserva anche di cucina. Non dimentichiamo esser stata un'epoca, quella, di grande ospitalità nei castelli e nei feudi. Il Signore del luogo era largo della migliore accoglienza a chiunque, amico, si fosse presentato a salutare le sue armi appese o dipinte all'ingresso del ponte levatoio. Il Parco, dell'estensione di circa ventitré chilometri fra la dimora ducale e la Certosa, era: «circondato da mura con le fosse e porte, coi suoi ponti levatoi, in cui non si poteva entrare se non con licentia dei portinai. All'intorno lungo le mura che lo chiudevano, erano bellissimi pergolati con tutte le sorti d'uve che si possono desiderare, e dette mura erano coperte di spalliere di nocciole. Nel mezzo di questo raro giardino era una grande peschiera lunga trenta passi e larga venticinque e tanto netta che vi si scorgeva sin ad ogni minimo pesciolino che vi fosse dentro, e d'intorno alle sponde v'erano ridotti, chiamati dal volgo cornici, dove si ricoveravano i pesci dei quali c'era gran copia, fuggendo il sole d'estate e il freddo d'inverno.

Potrei dire molte cose del «Barco» in cui erano già rinchiusi molti animali come cervi, daini e caprioli i quali ascendevano al numero di più di cinquemila capi (come io intesi dalla felice memoria della mia onorata genitrice la quale fu figliuola d'un Messer Cristoforo Reina cognomina- to Spinolo stato capitano di detto Barco per spatio di trenta due anni, sotto il dominio di Francesco, Galeazzo e Ludovico di casa Sforzesca Duchi di Milano); i quali animali ivi si nutrivano, per le caccie de’ Signori, le lepri poi, ch'ivi si vedevano, erano senza numero, i fagiani, pernici e quaglie erano spesse come le formiche, e s'andavano a pascolare ne i cortili de gli abitatori senza veruna tema, essendo a ciò avezze e perchè c'era pena la forca a chi avesse ucciso uno de quegli animali, o quadrupedi, o volatili, e per lo ricetto d'essi v'erano molti boschi e al tempo della state acciocchè quegli animali non distruggessero i seminati erano rinchiusi entro ad alcuni steccati per questo effetto fabbricati, v'era un luogo particolare per i conigli, per ciò detto la conigliera, e questo era una valle rinchiusa da mura per lo cui mezzo scorre un fiumicello detto la Vernavola, ed un altro chiamato la Struzzaria dove stavano rinchiusi molti struzzi, ed un altro serraglio in cui erano molti orsi nomato l'orsaria con un alto muro d'attorno il quale è dirimpetto al monastero di S. Paulo».

Ma dove arriveremmo con tutte queste citazioni? Concludiamo con la rievocazione dell'unico piatto veramente locale, la «zuppa alla pavese» al quale si vuole conferire storica origine. È una portata, o meglio un «principio» modestissimo, ma nel contempo eminentemente ristoratore, specie per iniziare una cena che conti appendici di maggior rilievo; che comunque fu sufficiente per ristorare - si racconta - Francesco I dopo la batosta sofferta il 25 febbraio 1525 nel Parco di Pavia ad opera degli imperiali condotti dal Marchese di Pescara e dal vicerè Lannoy. Vorrebbe dunque la tradizione che il re Cristianissimo, ormai prigioniero, spossato dalle fatiche della giornata, avesse domandato di che ristorarsi; ma che trovare, degno di lui, dove era passato l'imperversare della battaglia? Si ricorse alla casetta di un contadino e di quel po' che fu possibile ottenere dovette accontentarsi; un po' di pane e di magro brodo, tanto da farne una zuppa alla quale venne aggiunto un uovo sbattuto. Il re ne fu soddisfattissimo, e la zuppa con l'uovo passò alla tradizione col nome di zuppa alla pavese la cui confezione, col tempo, venne perfezionata preparando abbrustoliti i crostini di pane, ed aggiungendo al brodo già ristretto e sostanzioso più di quanto non possa essere stato quello dell'anonimo contadino, una abbondante spolverata di grana grattugiato, quel buon granone delle «casère» locali che, spaccato, piange sapide lacrime di dolcezza da tutti i pori.