... divertimenti popolari                                     Cava Manara
 
 

Giochi e divertimenti popolari

L'uomo, questo eterno fanciullo, sia nell'infanzia come nella maturità ha sempre avuto bisogno di un passatempo che gli consentisse di svagare la mente ancora bambina o di riposare il corpo e lo spirito dalle fatiche del lavoro. Così sono nati tutti i giuochi che noi conosciamo, volta per volta adattati alle contingenze della vita e per queste intesi ad una semplice ricreazione, magari con l'incentivo di un premio, affidandosi alla singola abilità od alla sorte, od a conseguire una maggior prestanza fisica.
Molto in uso anche a Pavia era nell'età di mezzo il giuoco dei dadi, detto della zara (dall'arabo zar - dado) o «dell'ossi del matarello» o semplicemente «baratteria» che vuol dire appunto banco di giuoco d'azzardo di dubbia fama, donde deriva quella «lordura» confinata da Dante nell'ottavo cerchio dell'Inferno.
E tanto s'era generalizzato che intervennero provvedimenti a vietarlo in quanto per tal giuoco gli operai trascuravano il lavoro e i ragazzi la scuola, e oltre far perder tempo e denaro «ne seguono biastemie, rixe et altre male azioni, disordini, danni et excessi e scandali». Mentre per i bestemmiatori v'era la nota pena, prettamente pavese che consisteva nel calarli, ingabbiati in una robusta cesta, dal ponte entro il Ticino a rinfrescare col corpo le idee, per l'aggravante del giuoco in pubblico erano stabilite pene di almeno tre tratti di corda o cento scudi di ammenda.
Anche il giuoco della pallamaglio, come attesta una grida del 1570 del podestà Sigismondo Picenardi, era vietato nei luoghi di pubblico passaggio per evitare che la palla, generalmente di legno, malamente colpita dalla mazza, finisse, come spesso accadeva, addosso ai pacifici viandanti.
Nel 1300 assai diffuse erano le così dette Battagliole combattute nelle domeniche e i dì festivi del carnevale, dai ragazzi della città divisi in due fazioni, quelle di Pavia alta a di Pavia bassa. A lor volta le fazioni al comando dei rispettivi capitani, erano divise in squadre formate a seconda delle varie parrocchie; e i combattenti avevano il capo coperto da una celata di vimini recante, a colori, le insegne della propria compagnia ed ornata, come voleva la fazione, di una penna o di una coda di cavallo. Erano inoltre provvisti di scudo e combattevano con armi di legno. I combattimenti avvenivano in tre luoghi distinti; in un prato fuori la città dove l'armata della parte settentrionale difendeva certi monticelli (muntagnèt) e la meridionale, occupando il piano, li assaltava; nella piazza antistante le antichissime chiese di S. Stefano e di S. Maria del Popolo, che furono poi demolite nel 1488 per dar luogo alla costruzione della nuova cattedrale; quivi una delle parti si disponeva sul sagrato vero e proprio, l'altra sullo spazio fra il monumento del Regisole e la contrada di Rovelecca, spazio che era detto Atrio di S. Siro; ed infine nel cortile del Comune (Brulèt) attorno ad una pietra destinata alla lettura dei pubblici bandi, sempre sotto la vigilanza delle guardie del Comune perchè non venissero usate armi di ferro o comunque pericolose. Veniva proclamata vittoriosa la parte che vinceva l'ultimo giorno di carnevale. Più tardi vennero le carte da giuoco a portare anche fra noi la passione della zecchinetta, della bassetta e del faraone, e tanto si diffusero che nel 1590 un certo Tomaso Majni, «guantaro abitante in Pavia, parrocchia di Santa Maria Nuova» si offrì di impiantare una fabbrica di carte «tanto alla franzesa che alla milanesa» purchè il Comune gli avesse consentito il privilegio della esclusività per venticinque anni!
Fra i giuochi popolari ebbero più tardi molta diffusione le lotterie che si svolgevano, a garanzia dei giocatori, sotto la sorveglianza di appositi incaricati del Comune, ed i cui premi consistevano negli oggetti più svariati. Tali lotterie erano dette nel 1750 «Real e Nobil giuoco della Mierina o Migliarina, o delle galanteria». Da queste derivarono poi le così dette «riffe» tutt'ora in uso nelle nostre campagne per quanto di proporzioni assai più modeste.
In fatto di lotterie vogliamo particolarmente ricordarne due svoltesi a beneficio della Cattedrale. Si era nel 1610 e si lavorava al presbiterio che doveva essere alzato ed allungato, e mentre i pavesi venivano volontariamente in contro alla spesa tassandosi per un denaro ad ogni boccale di vino venduto al minuto, la «Ven. Fabbrica del Duomo nuovo di Pavia», invitava la cittadinanza a partecipare ad un «lotto». «Tutto il danaro che sopravanzerà -diceva il bando- dal costo delli premi, il qual non sarà più della mittà, andarà a beneficio della detta Fabrica».
Ripresi più tardi i lavori per l'iniziativa del Vescovo Monsignor Riboldi, che nel 1882 già aveva dato di suo diecimila lire, nel 1893, mancando altri fondi il Presule indiva una grandiosa lotteria con cinquecento premi dei quali i primi cinque offerti da lui e tra questi i suoi due cavalli e due candelieri di argento massiccio del peso di un chilogrammo.