... i mestieri                                                 Cava Manara
 
 

'l Sabré o Bunsé

Fiorentissima fu, anche a Pavia, prima che venisse l'uso delle damigiane, dei secchi di ferro zincato o smaltato, degli enormi tini di cemento internamente rivestiti di vetro, e dei carri cisterna, l'industria delle botti, dei mastelli e delle secchie in legno, industria distribuita in parecchi punti della città ma di preferenza nei rioni di Porta Salara e di Porta Nuova e quindi vicini al fiume. Allogati in ampi locali, il più delle volte in una delle tante chiese sconsacrate, che esistevano a Pavia, i pavimenti ingombri di schegge e di trucioli di legno, doghe di ogni misura diritte o curve accatastate ovunque, tavole diritte e fondi circolari od ellittici già preparati, fasci di moietta o cerchi di legno o di ferro appesi alle pareti, una enorme porta d'entrata e qualche finestra in alto, molto in alto. In un angolo del locale o, più spesso fuori sulla strada, come insegna del mestiere, il tipico, carro basso a quattro ruote e timone che dovrà servire per il trasporto delle secchie, dei mastelli, e delle botti ultimate. La pialla a cavalletto, leggermente inclinata troneggia nel locale, è il capostipite degli arnesi di questo artigiano ed è proprio a seconda dell'angolo di inclinazione con cui le doghe verranno piallate in confronto al piano trasversale della pialla stessa, che il diametro del recipiente risulterà più o meno elevato. Il bottaio, come il calafato, potrebbe chiamarsi maestro d'ascia e ne fa fede la sòca (ceppo), sopra la quale vengono appoggiate le doghe più o meno coniche e dalle quali ad ogni colpo d'ascia potentemente vibrato, corrisponde l'asportazione di una lignea scheggia. Ed ,oltre alla pialla ed all'ascia, ecco fra gli altri ferri del mestiere, la sapàta, i scüpéei, i bidàn, al zinadur, la tanavéla, la sgurbia, la resga, l vultéi (zappetta, scalpelli, bedani, caprugginatorio, succhiello. sgorbia, sega), ed altro, coi quali l'opera viene portata a compimento, sia che trattisi della piccola sàgia (secchia), o della minuscola butàssa (bariletto che serve come borraccia) da tracolla, oppure dal vasslei, vassél, o buta (barile o botte) o dal sàbar (mastello) più o meno grande, o infine della enorme tina (tino) e del non meno enorme ciüf (pipa), capace di parecchie e parecchie decine di ettolitri. Ma un bottaio che non sapesse fare anche i travaséi (tinozza ellittica) e i brent, correrebbe il rischio di perdere la propria reputazione presso i ost e i brentadù, che sono la sua clientela abitudinaria. E un po' anche fabbro deve essere il bottaio, per non ricorrere ad altri nella costruzione dei cerchi, e dopo averli forati ed inchiodati deve saperli campanà mediante battitura di un bordo solo con la penna del martello allo scopo di dar loro la conicità proporzionata alla forma del recipiente cui devono servire. Ed a montare i cerchi stessi, maneggia agilmente martel e sparssel (ribuzzo), avendo cura di ottenere lo scopo senza danneggiare le doghe. A lavoro finito, orgoglioso del proprio manufatto, chiama a raccolta nel laboratorio, amici e conoscenti e così, proprio come un artista illustra la propria opera, egli si dilunga ad illustrare le difficoltà superate per ottenere un bèl bundòn (zaffo), e un bèl us-ciö (mezzule), facendo osservare che il recipiente, provvisto di simile scuntréi (zipolo), può essere garantito contro lo spargimento del liquido.
Conclusione? Semplicissima! Per non fare come gli asini di montagna che portano il vino e bevono l'acqua, trattandosi in questo caso quasi sempre di vasi vinari, tutto finisce in un'allegra augurale bevuta.