... il territorio                                                                     Cava Manara
 
 

La sylva carbonaria

Durante il periodo storico cui siamo giunti e cioè sotto il governo degli imperatori romani, l’Italia andò consumandosi nella corruzione dei costumi, e uno dei primi e più notevoli danni che ne derivarono fu la sempre crescente diminuzione della sua popolazione. Soltanto Roma rigurgitava di abitatori; ma essi erano uomini divenuti inetti alle arti, alle industrie ed alla coltura dei campi, ed in gran parte istrioni, buffoni, gladiatori, parassiti, cuochi, lenoni ed altra simile gentaglia venuta o chiamata dal di fuori allo scopo di divertire i pochi gaudenti. Così Roma e con essa tutto il vasto impero romano, colla decadenza dei costumi dava al mondo l’umiliante e miserando spettacolo della sua decadenza morale, civile, politica. Alla riluttante immoralità che dilagava ovunque si aggiunsero anche gravissime pestilenze che spensero gli uomini ed i bestiami, onde le città disertarono e le campagne divennero sterili lande, spinai e misere brughiere. Lo spopolamento d’Italia ci è attestato e dai barbari che l’Imperatore Marco Aurelio condusse in Italia e volle che vi si stabilissero, e dalle stesse terre abbandonate e distribuite poi da Pertinace perché fossero coltivate. Ne la nostra Lomellina poteva essere più popolata delle altre regioni d’Italia, se si pensa che, come ci riferisce lo storico Denina, l’Imperatore Aureliano voleva appunto mandare delle colonie di schiavi barbari per ripopolare le terre a noi vicinissime del Monferrato e delle Langhe. È ben vero che le provincie più lontane da Roma, e quindi anche la Lomellina, conservarono più lungamente quella semplicità di costumi che e la sorgente più feconda della popolazione. Ma il male anche qui poco a poco trapelava, ed arrivo anzi al colmo di ogni misura allorché gli imperatori fissarono la loro dimora or a Verona, or a Milano, or a Pavia. La residenza imperiale nella vicina città condusse fra noi gli stessi disordini che erano in Roma e nelle vicinanze di essa. Diminuita la popolazione ed abbandonata la coltura dei campi agli schiavi, doveva necessariamente perire o patire immensi danni l’agricoltura. Non deve quindi recare meraviglia come narra lo storico Bossi, che gli eserciti degli imperatori Ottone e Vitellio trovassero così ingombre di boscaglie le nostre ubertose campagne, da riuscire impossibile alle schiere di ordinarsi in battaglia. E queste boscaglie erano sempre più o meno infestate da masnadieri che con le loro spogliazioni e crudeltà spargevano nei dintorni la desolazione ed il terrore.

Fra queste boscaglie o selve furono famose nella nostra Lomellina quella tra Valeggio e Mortara detta Sylva Bella, nome che rimase poi ad una cascina o frazione di case sorte in seguito in quel luogo, quella del Terdoppio oltre Dorno, e soprattutto quella a noi vicina della Sylva Carbonaria, voce comune, dice il Pollini, a tutte le grandi selve e donde deriva il nome di Carbonara al paese a noi limitrofo. Di questa Sylva carbonaria rimasero delle vestigia sino a nostra ricordanza, e che sono andate poco per volta scomparendo. Era estesissima ed occupava tutta quella zona che, cominciando dalla vallata di Carbonara o più precisamente dall’ampio sabbione sotto Carbonara (ora frazione Sabbione), e comprendendo gran parte del territorio di Gropello, di Dorno, di Zinasco, si protendeva verso Torvedo (ora Travedo) e Sommo, occupando altresì tutto il territorio di Torre dei Torti e parte di S. Martino Sicc. Le piante di alto e grosso fusto di cui abbondava servivano a fare il carbone, e perciò appunto la selva fu detta carbonaria. In essa come nelle altre selve, vi trovarono sicuro ricettacolo malfattori e predoni di ogni genere, come pure vi abbondavano lupi ed altre fiere; anzi queste bestie selvagge erano cosi cresciute di numero che l’imperatore Berengario II, circa l’anno 960, emanò un decreto che obbligava gli abitanti dei vicini paesi a procurare la distruzione di quei feroci animali che rendevano quasi impraticabile la via Cozia la quale, come diremo più avanti, attraversava di fianco la selva carbonaria(1).

S. Aldo

Però anche in questa selva, come già nei deserti della Tebaide e in altri solitari luoghi, come giglio tra le spine, fiorì un Santo, l’eremita Aldo o Alda, come pare si debba meglio dire. Gli storici nostri, parlando di questo santo eremita, non sanno precisamente stabilire quale sia stato il tempo della sua dimora fra noi, ci dicono pero che dapprima seguì la regola di San Colombano di Bobbio, e poscia presso Pavia abitò nell’eremo nel luogo detto Carboraria, dove una volta per la moltitudine dei boschi vigeva l’arte carbonaria. (Bollandisti, vol. 1.). E il Robolini riferisce che fin dal VIII secolo esisteva in Carbonara una cappella dedicata al Santo, che poi andò distrutta. Le spoglie mortali di questo santo anacoreta si trovano ancora al presente sotto l’altare maggiore della chiesa di S. Michele in Pavia insieme a quelle di S. Ennodio vescovo e di S. Eleucadio. Il tempo poco per volta ha fatto scomparire la gran selva, della quale non rimangono ancora che poche macchie qua e la sparse specialmente nei terreni sabbiosi verso Gropello e Dorno, e che presto anch’esse, sotto la sollecita vanga dei nostri agricoltori, andranno distrutte per sempre, ma la memoria dell’umile monaco che nelle ombre della selva carbonaria raggiunse il vertice delle cristiane virtù, verdeggia ancora e vive fra di noi pura e bella come nei tempi di sua esistenza. Di molti suoi coetanei, grandi per ricchezze e potenza, si è perduto il nome, ma il nome dell’eremita, malgrado tanti secoli siano trascorsi, risuona tuttora venerato e benedetto. Così è sempre: la memoria dei grandi dinanzi al mondo perisce dopo un po’ di strepito che si fa intorno ad essi, mentre dura quella dei grandi dinanzi a Dio, sebbene agli occhi del mondo fossero umili ed abietti. E ciò avviene perché è Dio che dispone a questo modo le cose e gli avvenimenti umani per dimostrarci che la vera grandezza consiste soltanto nella virtù. La presenza di S. Aldo nella selva carbonaria ed il fabbricato ad uso agricolo che tuttora esiste ai confini di Torre dei Torti, denominato Santa Maria(2), come alcuni altri fabbricati posti ai confini della selva nella vallata di Carbonara, e dei quali sappiamo che in origine erano conventi, ci fanno ritenere non improbabile 1’ipotesi che siano stati i monaci i primi che hanno dissodata l’antica selva carbonaria. Nessuno infatti ignora, e venne ammesso e riconosciuto dai più avversi alla Chiesa, che in generale e ai frati, ai monaci che la nostra Italia deve se dalle sue lande, dai suoi spineti, dalle sue fitte boscaglie sono usciti gli ubertosi campi che ora verdeggiano e ci rallegrano con l’abbondanza delle messi.

La Via Cottuta

La gran selva carbonaria era, come già si è accennato, attraversata quasi di fianco dalla Via cottuta, nome che si riconnette a quello di Cozzo e delle alpi Cozie. Questa via che vuolsi sia stata costrutta dai Romani circa cento anni prima di Gesù Cristo, da Milano passava per Pavia e pel Ponte sul Ticino; e giunta qui alla località ove ora e la nostra Cava, si biforcava in due altre vie, delle quali l’una a destra passava per Dorno e Lomello, l’altra a sinistra per Zinasco e Mede, e dopo di avere transitato sul Terdoppio e sull’Agogna, si riunivano a Cozzo per proseguire per Vercelli, Torino e Susa sino alle alpi Cozie. È per queste vie, e senza dubbio per la via militare Cozzo Lomello Pavia, di cui è cenno anche nella tavola Pentiugeriana, che passarono gli eserciti dei barbari: vi passò Costantino il grande, venendo da Torino a Milano, vi passarono gli imperatori Costanzo e Giuliano. Narra infatti il Capsoni che Costanzo dopo aver dato a suo cugino Giuliano la porpora cesarea, e destinatolo al governo delle Gallie, l’accompagnò ad un luogo notabile per due colonne, Luogo che giace tra Lomello e Pavia. Queste parole in corsivo il Capsoni le toglie dallo storico antico Ammiano Marcellino. Si disputò molto per stabilire qual fosse questo luogo notevole per due colonne; ma a parere dello stesso Capsoni esso sarebbe Zinasco, e questo nome come quello di Binasco, sarebbe derivato dalle parole "ad binas columnas" (alle due colonne) con una leggerissima e non inusitata variante della lettera B in Z(3). Quali poi potessero essere queste colonne lo vedremo fra poco. È per questa via Cottuta che passarono più tardi i pellegrini che si recavano a Roma per venerarvi la tomba dei S.S. Apostoli Pietro e Paolo, e quelli che si spingevano più lontano, sino alla Spagna per prostrarsi a Campostella sul sepolcro dell’apostolo S. Giacomo. È di qui, dalla Cava, vogliamo dire, che deve essere passato il grande nostro Sant’Agostino quando da Roma si recò a Milano e di là poi, insieme con la sua madre Santa Monica, fece ritorno per recarsi ad Ostia, dove la santa donna morì. E l’amenità del luogo torno tanto gradita al Santo dottore che, come vedremo in seguito, altra volta qui convenne e si fermo in solitaria meditazione. Questa adunque era la via principale che percorreva il nostro territorio a quei tempi: le altre erano viuzze o piuttosto sentieri che servivano di comunicazione tra i diversi casolari, e fra ciascun casolare e il campo, la vigna, il bosco. Non si deve per altro credere che anche la via principale, battuta da innumerevoli traini e pedoni, presentasse la regolarità e comodità delle nostre strade attuali; essa era in diversi punti tortuosa ed assai accidentata per cui doveva riuscire tutt’altro che delizioso un lungo cammino. Nel percorso di queste strade, come in tutte le strade di quell’epoca, per indicare le distanze, si disponevano pietre sporgenti o colonnette militari, onde nacquero i nomi di Settimo, None, e, come altri vogliono, Binasco, Zinasco ed altri simili. Vi erano pure le mutazioni e le mansioni (mutationes et mantiones) da non confondersi insieme, come hanno fatto alcuni, perchè erano cose ben diverse.

Cavea cum Taberna

Le matazioni, che erano più frequenti, non erano altro che le poste pel cambio dei cavalli, le mansioni invece erano stabilite non solo per questo motivo. ma eziandio per ricoverare, rifocillare le milizie, i magistrati, i legati del principe, e persino gli stessi imperatori, nei loro viaggi. È nelle mansioni che si raccoglieva il così detto fodro, cioè quella certa quantità di frumento, orzo e altre cose necessarie al vitto dell’esercito imperiale. Inoltre trovavansi degli alberghi, così come petevano essere a quei tempi, pel ristoro dei viaggiatori. Una di queste mansioni, ossia uno di questi luoghi o centri di riposo, di ristoro, di esazione del fodro, anzi una tra le principali doveva certamente essere la nostra "Cavea cum taberna". Il P. Portalupi nella sua: “Storia della Lomellina e del Principato di Pavia dai primi abitatori fino al 1746” al nome di Cava scrive: "Cava o Cavea così appellata da una profonda valle ed assai ampia che le soggiace e di folte piante ingombrata. Il suo territorio è arenoso e non molto adatto al frumento. Ha però belle vigne. (Così era a quei tempi, ma .... ora le mutate condizioni del terreno, specie per 1’irrigazione delle acque, hanno altresì cambiato il genere della produzione, e là dove prima l’Autore dice che il terreno era arenoso e coltivato a vigne, ora sono campi e prati fertilissimi). Il sito della Cava è s’una eminenza che sovvrasta alla valle, e donde in bel prospetto scuopresi Pavia distante tre sole miglia. E il Capsoni nella sua storia dopo di aver detto dell’uso notissimo che tenevano i Romani di stabilire ad ogni mille passi una pietra cilindrica o colonnetta migliare e spiegato quindi il perchè si diceva “mutatio ad Cotias: di là mansio, cioè luogo di riposo a Laumello, indi mutazio Duriis” (Dorno), da Dorno alla Cava, scrive “Con più ragione alla Cava, il dì d’oggi ancora, chi scrive con esattezza, mette l’aggiunto di conteberna vale a dire cum taberna, .... e ciò mi fa parimenti credere ivi stabilito anticamente un diversorio a beneficio dei viaggiatori, cui mettessero capo e tornassero poi a dividersi per opposto angolo due frequentate contrade ossia le due strade di cui sopra dicemmo(4).

Conclusioni

La nostra Cava adunque fino dai tempi romani occupava un posto distinto ed importante assai, perché non vi era qui solo un diversorio o albergo, ma una di quelle mansioni di cui abbiamo parlato più sopra. È facile quindi immaginare la moltitudine varia di forestieri che allora sarà passata, si sarà fermata e si sarà dato convegno qui dove ora sorge il centro del nostro bel paese. E ben anche possiamo pensare alla vita laboriosa dei nostri antichi padri, e al commercio che ne avevano tratto. Onde conchiudendo questo capitolo possiamo ben dire che se avvi paese pel quale gli alberghi e le taberne costituiscono, quasi diremmo, una condizione necessaria e intimamente legata alla vita stessa del paese, questo è precisamente la Cava, per la quale ancora oggi, la vita, il commercio suo è in gran parte affidato ai suoi alberghi, alle sue taverne o osterie, ai suoi negozi o provviste di cibarie, così ne più ne meno, come negli antichi tempi. Il P. Portalupi, come il Capsoni ed altri ci fanno sapere come in queste nostre località fioriva la vite. Anche Plinio fino da suoi tempi asserì la stessa cosa: ora se è vero quello che dice il poeta Redi che là dove fiorisce e fruttifica la vite l’uomo sorride ed è sempre di carattere piacevole ed allegro, noi possiamo compiacerci nel constatare che i Cavesi d’oggi, ossia gli attuali tardi nipoti (non ostante la quasi totale scomparsa delle vigne) non sono.... degeneri dagli antichi loro padri!

 
 

(1) Narra il Capsoni che nelle selve della Lomellina non solo i lupi e le altre fiere, ma vi abbondavano cervi e caprioli, lepri e camozzi, cigni, anitre, fagiani e innumerevoli altre specie di uccellame, e che l’Imperatore Carlo V, trovandosi a Milano, venne più volte a cacciare nelle nostre selve, allo scopo di distrarsi dalle grandi cure di stato da cui era oppresso, La scomparsa dei boschi e delle selve portò seco la scomparsa delle fiere e delle bestie da caccia...

(2) Questo cascinale conserva ancora dell'antico convento un'immagine molto deperita della B.V. e la chiesetta essa assai pure rovinata.

(3) Così opina il Capsoni, come si disse; altri però pensano, e forse con maggior fondamento, che Zinasco, come Binasco, Garlasco ed altri nomi terminanti in asco siano piuttosto di origine gallica.

(4) A sua volta il Casalis parlando di Cava e volendo spiegare l’origine del suo nome scrive; “le inondazioni frequenti del Po e del Ticino hanno fornito e mantengono le cavità di questo luogo che ne prese il nome, avvegnachè 1’abitato siane costrutto sulla più elevata parte”.

N.B. Lo storico Francesco Guasco da Bisio, nel suo Dizionario feudale degli antichi stati sardi e della Lombardia, parlando di Cava, al Vol. IV. divide Cava da Taberna, che egli scrive invece Taverna, quasi ad indicare due luoghi separati. Non sappiamo dire sopra quale ragione e fondamento si appoggia. Se davvero Cava e Taverna sono state in origine due frazioni tra loro distinte, pensiamo che Taverna allora doveva essere il piccolo gruppo di case dove ora sorgono l’albergo della stazione e le altre case nella via Gerrechiozzo perché appunto queste alle falde dell’altura di Cava, là dove dovevano essere le cave, o taverne che servivano di rifugio, di diversorio ai passeggeri. Sappiamo infatti che una parte delle case poste a levante del paese o meglio a destra della strada per Gerrechiozzo e che era detta Costa Montica a S. Martino, quantunque di giurisdizione della Parrocchia della Cava, apparteneva tuttavia al Comune di S. Martino, e solo più tardi venne incorporata al nostro. Comunque sia, sta il fatto che Cauea cum taberna fu sempre considerata dagli storici come un unico paese, Cavea vogliam dire con sue taberne o caverne o luoghi di rifugio e di ristoro pei viandanti che qui, luogo di mansione, si fermavano, prima o di scendere alla via Emilia o di proseguire per Pavia e Milano, oppure di salire per la Cottuta, la strada militare romana. Anche per Gerrechiozzo alcuni divisero le parole: Gerre e Chiozzo. Ma fu sempre ritenuto il medesimo paese, come vedremo in seguito.